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Più vicini ai clienti con il digitale ma il negozio fisico rimane un’emozione. Gruppo Capri fa scuola fra innovazione e management

Più vicini ai clienti con il digitale ma il negozio fisico rimane un'emozione. Gruppo Capri fa scuola fra innovazione e management

Abbiamo parlato con Salvatore Colella, CEO di Gruppo Capri, azienda napoletana attiva nel fashion retail, il quale ci ha spiegato queli sono stati gli effetti della pandemia sulle abitudini dei consumatori e come sarà il futuro del fashion secondo lui.

Quella di Gruppo Capri, azienda napoletana attiva nelfashion retail, è una storia imprenditoriale particolare, che nasce da una lunga esperienza maturata nel mondo degli store multibrand e che riflette il carattere verace e pragmatico di chi – il fondatore Nunzio Colella e i figli Salvatore e Francesco, a cui si aggiungono la moglie Anna e le figlie Marianna e Veronica – questa azienda la guida ogni giorno. Nata nel 1988, oggi opera con le insegne Alcott e Gutteridge attraverso una rete di oltre 250 negozi monomarca e negli anni ha consolidato la propria presenza all’estero, raggiungendo una decina di Paesi.

Con Salvatore Colella, CEO dell’azienda, abbiamo parlato un po’ di tutto: dagli effetti della pandemia sulle abitudini dei consumatori a come sarà il futuro del fashion.

La pandemia ha cambiato molte cose: le differenze fra il consumatore di ieri e quello di oggi/domani?

La pandemia ha ridisegnato forme e contenuti del consumatore. I clienti più giovani non sono cambiati, quelli appartenenti alle generazioni precedenti invece sì perché non erano avvezzi al canale online e al mondo dei social, che è diventato una vera e propria vetrina. Oggi il consumatore va molto più coccolato rispetto al passato. Il suo livello di conoscenza sui prodotti, sulle caratteristiche e sui prezzi si è alzato sensibilmente. Le aziende devono essere in grado di fornire esperienze narrative e d’acquisto eccellenti.

Le crisi, spesso, nascondono opportunità. Possiamo trovarne in questo anno e mezzo?

Prima il cliente si conquistava solo con la vetrina del negozio, oggi anche con altre componenti, per esempio la sostenibilità dei materiali. Noi siamo come una sartoria e puntiamo su piccoli particolari che fanno però la differenza. Da tre anni a questa parte abbiamo iniziato a concentrare la produzione dei nostri capi nel bacino del Mediterraneo, riducendo il trend di approvvigionamento dall’Estremo Oriente. La pandemia ha accelerato questo processo e ci ha spinto a un’ulteriore riduzione dei tempi di consegna e del ciclo di vita del prodotto, aumentando al contempo la qualità del prodotto stesso e rendendolo più sostenibile in quanto riduciamo le emissioni accorciando le distanze di trasporto.

Diversi studi dicono che compreremo sempre di più online, dal vino ai vestiti: il rischio che il negozio fisico scomparirà è reale?

Certe piacevoli abitudini non verranno mai meno e l’acquisto in negozio è una di queste. Il digitale migliora l’esperienza di consumo e di qualità del servizio, è innegabile, e inciderà probabilmente in modo importante sul numero dei punti vendita, ma questi non potranno mai scomparire del tutto. Il retail è anche emozione, e il nostro modo di fare retail è pensato per offrire questo tipo di esperienza.

L’omnicanalità è una componente chiave per avere successo nel retail: è d’accordo?

L’omnicanalità è un servizio necessario per legare il cliente a un brand, così come il phygital è una modalità che si aggiunge a quelle tradizionali, al pari dell’e-commerce. Credo sia un naturale effetto della competizione di mercato, fermo restando che il cliente è sempre al centro di tutto. Lo prova il fatto che nel periodo del lockdown abbiamo avuto la possibilità di interagire con il nostro consumatore in maniera più approfondita e questo ci è di aiuto oggi, dopo la riapertura dei nostri store.

Facciamo un passo indietro, ai vostri marchi: come nascono? C’è un aneddoto particolare da ricordare?

Siamo nel fashion retail da 50 anni, gestivamo negozi multimarca e la scommessa del private label nasce dall’esigenza concreta di fare marginalità e dalla volontà di portare avanti il sogno di creare una nostra etichetta. Un aneddoto? Papà creò Alcott ma quando con mio fratello siamo entrati in azienda per evitare discussioni ha acquisito i diritti della storica insegna Gutteridge.

L’interno di uno degli store Alcott, insegna di Gruppo Capri

Avete puntato sul digitale anche prima della Covid 19: è stato facile trovare le professionalità necessarie?

È un argomento per noi fondamentale. Se avere la visione di un obiettivo da raggiungere è alla base di qualsiasi progetto, trovare professionalità adeguate è altrettanto strategico. Il problema è che queste figure sono difficili da trovare, perché c’è grande disponibilità di risorse con un know-how specifico ma scarsa disponibilità di competenze trasversali. E sono soprattutto queste ultime, oggi, a fare la differenza.

Fare l’imprenditore al Sud è sempre più difficile rispetto ad altre aree del Paese?

La differenza ambientale, culturale e strutturale c’è ancora ma si può superare. Con il digitale molte barriere, anche geografiche, si abbattono e anche il problema della mancanza di talenti è più gestibile perché le tecnologie permettono di collaborare da remoto, di visualizzare virtualmente come veste un capo su un manichino direttamente dal nostro ufficio, di fare business a distanza. Prima viaggiavamo tantissimo, da 3-4 anni ci spostiamo molto meno e la nostra qualità lavorativa e di vita è decisamente migliorata.

Siete presenti all’estero in una decina di Paesi. L’internalizzazione è un punto di non ritorno per la media impresa italiana?

È un passaggio vitale quando un’azienda da piccola diventa manageriale. Se l’obiettivo è quello di aumentare il fatturato di qualche milione di euro non c’è bisogno di andare all’estero; è invece necessario farlo se si vuoleessere competitivi con il proprio marchio su larga scala. Porto un esempio: se voglio lavorare sul canale e-commerce in lingua spagnola devo per forza essere presente fisicamente in quel mercato.

Si sente più innovatore o più manager?

Più sognatore, e quindi mi sento a metà strada. Se si è troppo manager si diventa troppo rigidi, se si è troppo innovatori si rischia di perdersi in progetti troppo astratti. Occorre quindi essere, allo stesso tempo, sia innovatori che manager.

Vuoi saperne di più sulle strategie di innovazione dei nostri trailblazer? Leggi le loro storie nella sezione “CEOs Conversations”!

Maurizio Capobianco

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